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CROCIFISSIONE

L’atto d’inchiodare o legare una vittima viva o talvolta una persona deceduta ad una croce o a un palo (stauros o skolops) o ad un albero (xylon). Generalmente Erodoto usa il verbo anaskolopizein di persone vive e anastauroun di corpi. Dopo di lui i verbi diventano sinonimi nel significato di "crocifiggere". Giuseppe Flavio usa soltanto (ana)stauron, Filone soltanto anaskolopizein. Il verbo stauroun compare frequentemente nel NT, che usa sempre stauros e mai skolops per la croce di Cristo (vedere TDNT 7:572-84).

A. CROCIFISSIONE FRA I NON ROMANI

Nella sua storia, Erodoto nota che i Persiani praticavano la crocifissione come esecuzione capitale. (I.128.2; 3.125.3; 3.132.2; 3.159.1). Egli riferisce che Dario (512-485 a. E.V.) aveva crocifisso 3.000 abitanti di Babilonia. Altre fonti antiche, non necessariamente attendibili, parlano dell’uso della crocifissione fra le popolazioni dell’India (Diodoro Siculo 2.18. 1), gli Assiri (idem 2.1. I 0; Lucian Iupp. Trag. 16), gli Sciti (Diodoro Siculo 2.44.2; Tertulliano, Contro Marcione 1. 1.3), i Tauriani (Eur. IT 1429-30), e i Traci (Diodoro Siculo 33.15.1; 34/35.12.1). Diodoro Siculo riferisce che i Celti crocifiggevano i criminali come sacrifici agli dèi (5.32.6). Secondo Tacito, i Germani (Annali 1.61.4; 4.72.3; Germ. 12.1) e i Britanni (Annali 14.33.2) praticavano la crocifissione. Sallustio (Iug. 14.15) e Giulio Cesare (B Civ. 66) riferiscono che i Numidi usavano questa forma di esecuzione capitale. Secondo numerose fonti (p.es. Polibio 1. 1 1.5; 24.6; 79.4-5; 86.4; Diodoro Siculo 25.5.2; 10.2; 26.23.1; Livio 22.13.9; 28.37.2; 38.48.13), i Cartaginesi usavano la crocifissione. È possibile che i Romani l’abbiano adottata da loro.

Nel mondo di lingua greca, talvolta i criminali erano appesi ad una tavola (tympanum) per essere torturati o giustiziati in pubblico. Questa forma di punizione era molto simile alla crocifissione in cui le vittime venivano inchiodate a delle tavole. Secondo Diodoro Siculo, Dioniso I di Siracusa catturò e crocifisse alcuni mercenari greci assoldati dai Cartaginesi (14.53.4). Alessandro Magno ricorse frequentemente alla crocifissione. In un’occasione crocifisse duemila sopravvissuti all’assedio di Tiro. "Quindi la collera del re offrì ai vincitori un triste spettacolo. Duemila persone, la cui morte aveva placato il furore generale, restarono appesi a croci lungo l’ampio tratto della spiaggia" (Curzio Rufo, Hist. Alex. 4.4.17). Dopo la morte di Alessandro la stessa Grecia fu testimone di crocifissioni di massa. Nel 314 a. E.V., un amministratore del regno di Alessandro soffocò una rivolta nella città di Sicyon (nei pressi di Corinto) e mandò alla crocifissione trenta dei suoi abitanti (Diodoro Siculo 19.67.2). Nel 303 a. E.V., dopo essere la loro città caduta nelle mani di Demetrio Poliorcetes, il comandante di Orchomeno (in Arcadia) e ottanta dei suoi uomini furono crocifissi (idem 20.103.6). Sotto Antioco IV nel 267 a.E.V. la Giudea fu testimone della crocifissione di uomini rimasti fedeli alla Legge mosaica (Giuseppe Flavio, Antichità 12 §7256).

Durante il periodo preromanico ed ellenistico nell’Oriente di lingua greca, la crocifissione era praticata nel contesto di guerra o per atti di alto tradimento. Dopo l’avvento del dominio romano, la crocifissione fu anche usata per punire schiavi e criminali violenti. Come osserva Plutarco (circa 46-120 E.V.), "ogni criminale condannato a morte, porta la sua croce sulla schiena" (Mor. 554 A/B).

Fra gli Ebrei, la crocifissione fu praticata occasionalmente durante il periodo ellenistico-asmoneo. Il sommo sacerdote sadduceo Alessandro Janneo (in carica dal 103 al 76 a.E.V.), mandò alla crocifissione 800 farisei e fece trucidare le loro mogli e i loro figli davanti ai loro occhi mentre stavano morendo appesi (G. Flavio, Ant. 13 §380-93; JW 1 §797-98). [JW=Guerra giudaica] Secondo la Legge mosaica, i corpi di idolatri e bestemmiatori giustiziati erano appesi a un albero per mostrare che erano stati maledetti da Dio (Deut. 21:22-23). Nella Palestina precristiana questo passo di Deuteronomio era applicato a coloro che morivano crocifissi, come mostra il pesher di Nahum della Caverna 4 di Qumran. Anche un altro documento di Qumran (I IQTemple 64:6-13) collega Deut. 21:23 alla crocifissione, che a quanto pare era una punizione essena per crimini molto gravi.

B. CROCIFISSIONE SOTTO I ROMANI

Cicerone chiama crocifissione il summum supplicium [sommo supplizio] o l’estrema forma di punizione (Verr. 2.5.168). G. Flavio, che fu testimone oculare di morti per crocifissioni durante l’assedio di Tito a Gerusalemme, chiama questa "la più atroce delle morti" (JW §7203). In ordine crescente di atrocità, i metodi di esecuzione capitale erano la decollatio (decapitazione), la crematio (rogo) e la crocifissione. Talvolta la decapitazione era sostituita dalla daninatio ad bestias (dare i condannati in pasto alle belve), ma per organizzare questo tipo di esecuzione capitale occorreva avere a disposizione animali e arene. La crocifissione era molto più facile da eseguire e poteva servire da pubblico spettacolo. Per esempio, al tempo di Caligola (37-41 E.V.) sotto il prefetto Flacco, alcuni ebrei furono torturati e crocifissi nell’anfiteatro di Alessandria per divertire le folle (Filone, Flacc 72. 84 85).

Fra i Persiani e in un certo grado fra i Greci, come si è già notato, la crocifissione poteva essere applicata come punizione per gravi crimini contro lo stato. Talvolta i Cartaginesi crocifiggevano generali e ammiragli sconfitti o che avevano fallito in modo simile. Raramente cittadini romani venivano crocifissi per altro tradimento, diserzione in stato di guerra e altri crimini della stessa gravità. Per esempio, proprio prima dello scoppio della guerra giudaica nel 66 E.V., il procuratore romano Gessio Florio aveva fustigato e crocifisso a Gerusalemme alcuni giudei che erano stati cavalieri romani (G. Flavio, JW §7308). Ma solitamente i cittadini romani e, in particolare, i membri del ceto superiore, erano esentati dalla crocifissione, qualunque fosse la loro colpa. La condanna alla croce era limitata generalmente agli stranieri e alle persone di ceto inferiore, in particolare agli schiavi.

Nel 63 a.E.V. Rabirio, nobile e senatore romano, fu minacciato con la pena della crocifissione. In sua difesa, Cicerone affermò che la sola menzione della "croce" e del carnefice (colui che legava le mani al criminale, gli copriva la testa e lo crocifiggeva) era intollerabile per un rispettabile cittadino romano.

"Quant’è penoso cadere in disgrazia davanti ad un tribunale, quant’è penoso subire un’ammenda, quant’è penoso subire un esilio; e pur in mezzo a uno di tali disastri noi conserviamo un certo grado di libertà. Anche se fossimo minacciati di morte, possiamo morire come uomini liberi. Il carnefice, il coprire una testa e la semplice parola "croce" dovrebbero esser tenuti molto distanti dalla persona di un cittadino romano, ma anche dai suoi pensieri, dai suoi occhi e dai suoi orecchi. Poiché non è solo il verificarsi di tali cose, ma è anche il solo menzionarle che è indegno di un cittadino romano e di un uomo libero". (Rab. Perd. 16; il corsivo è aggiunto)

Questo discorso metteva in evidenza il senso di orrore e di disgusto che "buoni" cittadini romani provavano quando dei loro pari erano condannati o perfino minacciati di crocifissione. Per tali persone, la crocifissione era "la pena più crudele e disgustante", (crudelissimum taeterrimumque supplicium; Cic. Verr. 2.5.165). I Romani usavano la crocifissione per sedare ammutinamenti delle loro truppe, per stroncare la volontà dei popoli vinti e per indebolire la resistenza di città ribelli assediate. Predoni violenti e pericolosi potevano essere crocifissi spesso nei pressi o sulla scena stessa dei loro crimini. Quintilliano (circa 35-95) E.V.) approvava la crocifissione come pena per tali criminali, e pensava che questa forma di esecuzione capitale avrebbe avuto un effetto deterrente migliore se le croci fossero state collocate lungo le strade più frequentate. "Ogni volta che crocifiggiamo un condannato, devono essere scelte le strade più affollate, perché più persone possano guardare e provare paura. Poiché le punizioni sono correlate non tanto alla retribuzione delle colpe, quanto al loro servire da esempio" a scopo intimidatorio (Decl. 274). I Romani usavano la crocifissione soprattutto come servile supplicium [supplizio per gli schiavi], una terribile forma di esecuzione capitale tipicamente destinata agli schiavi, (servitutis extremum summumque supplicium; Cic. Verr. 2.5. 169).

Plauto (morto nel 184 a.E.V.), che il caso volle fosse il primo scrittore a provvedere le prove delle crocifissioni romane, ha da dire su questo tema molto di più di qualsiasi altro autore latino. Egli parla della "terribile croce" degli schiavi (Poen. 347; vedere Capt. 469; Cos. 611; Men. 66, 859; Pers. 352; Rud. 518; Trin. 598), e riflette l’umorismo macabro della loro sottocultura. Dal suo tempo in poi, le classi inferiori usarono "crux" come un sarcasmo volgare. La molto citata dichiarazione di Sceledro in Miles Gloriosus (scritta all’incirca nel 205 a.E.V.) insinua nella mente l’idea che per molto tempo prima di Plauto gli schiavi erano spesso crocifissi: "So che la croce sarà la mia tomba. quella in cui si trovano i miei antenati, mio padre, i nonni, i bisnonni, i bisavoli ecc." (372-73).

Livio riferisce che 25 schiavi fecero una cospirazione a Roma (nel 217 a.E.V.) e furono crocifissi (22.33.2). Nel 196 a.E.V. i capi di una rivolta di schiavi in Etruria furono crocifissi (Livio 33.36.3). Specialmente durante il secondo secolo a.E.V. le crocifissioni erano usate come deterrente contro le ribellioni in massa degli schiavi che vivevano a Roma o che lavoravano nei grandi possedimenti di altri luoghi dell’Italia. Secondo Orosio (5.9.4), la prima guerra degli schiavi scoppiata in Sicilia (139-132 a.E.V.) mandò alla crocifissione 450 schiavi. Appiano (BCiv. 1. 120) narra che dopo la definitiva sconfitta e uccisione di Spartaco nel 71 a.E.V., Crasso fece crocifiggere oltre seimila schiavi lungo la Via Appia fra Capua e Roma.

Perfino in condizioni "ordinarie" gli schiavi avevano un’esigua protezione legale. Giovenale parla della matrona romana che volle la crocifissione di uno schiavo e ignorando le obiezioni del marito fece la nota affermazione: "Hoc volo, sic iubeo, sit pro rations volantas" (Questa è la mia volontà e il mio comando. Se cerchi una ragione, è semplicemente questa: lo voglio) (Sat. 6. 223). Orazio avrebbe condannato un padrone che crocifisse il suo schiavo per avere tastato la minestra mentre la portava dalla cucina (Sat. 1.3.80-83), ma fu anche capace di commentare cinicamente che gli schiavi "servivano da cibo per le cornacchie sulla croce". (Ep. 1. 16.46-48). Al tempo di Nerone, un decreto del Senato riesumò l’usanza di giustiziare (spesso crocifiggendoli) tutti gli schiavi di una casa il cui capofamiglia fosse trovato ucciso (Tac. Ann. 13.32. 1). Questo è quanto accadde pochi anni dopo, quando un prefetto fu trovato ucciso (ibid. 14.42-45). Uno schiavo chiamato Mitridate fu crocifisso per "aver maledetto l’anima" di Caligola (Petron. Sat. 53.3). Gli schiavi che interrogavano gli astrologhi circa il futuro dell’imperatore, dello stato, o perfino dei propri padroni, venivano puniti con la crocifissione (Paulus Sent. 5.21.3-4). Svetonio narra che Caligola (Calig. 12.2) e Domiziano (Dom. 11. 1) crocifiggevano per capriccio schiavi imperiali e perfino liberti. Nelle sue Histories Tacito narra la crocifissione di numerosi liberti (2. 72.2; 4.3.2; 4.11.3).

Cicerone (menzionato sopra), Seneca (vedere sotto) e altri Romani ammisero che la crocifissione era una forma crudele e atroce di esecuzione capitale. Anche Varrone (Sat. Men. Fr. 24) fu il solo a protestare contro la barbarie della crocifissione. I più ritenevano ovvio che questa frequente forma di esecuzione capitale fosse necessaria per scoraggiare le classi inferiori a commettere gravi crimini. Nonostante la crocifissione fosse frequente al tempo di Roma, scrittori dotti preferirono dire poco di essa. Al contrario di Giuseppe Flavio, Tacito non menziona le innumerevoli crocifissioni avvenute in Palestina (Hist. 5.8-13).

C. FORME DI CROCIFISSIONE

Generalmente le vittime venivano crocifisse vive; talvolta venivano esposte sulla croce dopo essere state giustiziate in un altro modo. Policrate da Samo è un esempio del secondo caso. Egli fu catturato con l'inganno dal satrapo persiano Oroites, da questo ucciso "in un modo indicibilmente crudele" e quindi appeso ad un palo (Hdt. 3. 125.3). Che fossero vive o morte, quando venivano appese o inchiodate a un palo, le vittime subivano una degradante privazione di ogni dignità. Erodoto offre pochi dettagli nel narrare come il satrapo Artayctes fu crocifisso dagli Ateniesi all’Ellesponto: "Essi lo inchiodarono a delle tavole e ve lo appesero. Quindi lapidarono suo figlio davanti ai suoi occhi" (9.120). Normalmente gli scrittori antichi furono riluttanti a descrivere molti dettagli delle crocifissioni. Sotto l’impero romano, la crocifissione era preceduta solitamente dalla fustigazione. Talvolta la croce era costituita da un semplice palo verticale. Tuttavia, spesso alla sommità del palo veniva attaccata una traversa che gli conferiva la forma di una "T" (crux commissa); oppure la traversa era messa appena sotto la sommità del palo conferendole la più familiare forma del simbolo cristiano (crux immissa). Le vittime portavano su di sé la croce o la traversa (patibulum) sul luogo dell’esecuzione, dove venivano poi spogliate e legate o inchiodate al palo, sollevate in posizione verticale e appoggiate su un piolo di legno fisso al palo, sul quale venivano legati il tronco o le spalle e anche legati o inchiodati i piedi o i talloni. Poiché la crocifissione non danneggiava organi vitali, procurava una morte lenta, a volte dopo giorni di sofferenze atroci. Vedete anche IDBSup, 199-200.

I carnefici potevano variare la forma della pena, come narra Seneca il Giovane: "Io vedo là croci non di una forma sola, ma di numerose forme diverse: alcune vittime vi sono appese con la testa appoggiata al suolo; altre con il palo infilzato nei genitali; altre con le braccia divaricate sul patibolo" (Dial. 6 Com. Marc. 20.3). Nel racconto di ciò che accadde a coloro che fuggivano da Gerusalemme, Giuseppe Flavio ci fa pure notare che non erano usate forme standard di crocifissione, ma molto dipendeva dal momento in cui si trovava ad operare l’ingegnosità sadica degli assedianti.

"Quando essi [i fuggitivi] stavano per essere catturati [dai Romani], erano indotti ad opporre resistenza, e giunti alla fine del combattimento, sembrava troppo tardi per invocare pietà. Flagellati e sottoposti ad ogni genere di tortura fino alla morte, venivano quindi crocifissi ed esposti vicino alle mura [di Gerusalemme]. In verità Tito si rendeva conto dell’orrore di quanto stava accadendo, poiché ogni giorno 500, a volte anche di più, cadevano nelle sue mani. Tuttavia, era rischioso lasciar andar via liberi quelli che erano stati catturati con la forza, e guardare come quei prigionieri tenevano impegnata una gran parte delle sue truppe. Ma la ragione principale per cui non metteva fine a quell’eccidio era la speranza che, vedendolo, i Giudei fossero indotti alla resa affinché non facessero la stessa fine. I soldati stessi, infuriati ed amareggiati in massima misura, inchiodavano le loro vittime in diverse posizioni come macabro scherzo, e ne giustiziarono così tanti da non poter trovare più spazio per le croci, né più croci per le vittime (JW §7449-5 1).

La persecuzione dei cristiani perpetrata da Nerone a Roma è un esempio di tale capricciosa crudeltà: "Ai morti veniva fatto ogni sorta di scherno. Coperti con pelli di animali selvatici, venivano sbranati dai cani. O erano appesi a delle croci e arsi come torce dopo il tramonto per servire da illuminazione nella notte" (Tac. Ann. 15.44.4).

Nel corso di un dibattito circa la felicità, le Gorgias di Platone indicano varie forme di tortura che un condannato poteva subire prima di morire per crocifissione: "Se un uomo fosse stato scoperto a far parte di un complotto nell’intento di conquistare il potere tiranico e fosse stato catturato, sarebbe stato messo alla ruota e mutilato, orbato degli occhi dopo avere egli stesso sofferto e visto anche sua moglie e i suoi figli subire moltissimi e gravi oltraggi di vario genere, e alla fine crocifisso o arso su uno strato di pece. Sarebbe stato più felice se fosse sfuggito all’arresto, e conquistato il potere tirannico, continuando il resto della sua esistenza come sovrano del suo stato, facendo quel che gli aggrada, attorniato da persone invidiose e compiacenti sia fra i suoi concittadini che anche fra gli stranieri (473 bc).

Differenti torture che precedevano la crocifissione vengono nuovamente menzionate da Platone nel caso, non di un sedicente capo di complotto, ma di un uomo integerrimo: "Egli sarebbe flagellato, messo alla ruota, incatenato, accecato, e alla fine, dopo le più atroci sofferenze, crocifisso" (Res. 316e-362a). Nell’epistola 101 scritta a Lucillo, Seneca afferma che sia meglio commettere suicidio che affrontare un’estrema e prolungata sofferenza come una morte per crocifissione. Per enfatizzare la sua argomentazione, descrive a cosa sia simile una tale morte:

"Si può trovare qualcuno che preferisca morire consumandosi a brani, o perdendo la sua vita goccia a goccia, piuttosto che morire in fretta? Si può trovare qualcuno disposto a farsi appendere al legno maledetto, indebolendosi lentamente, già deformato, tumefatto con ripugnanti lividi sulle spalle e sul torace, ed esalando l’ultimo respiro dopo una lunga agonia? Avrebbe molte giustificazioni per morire prima di finire sulla croce".